Alexander Lowen

Transfert e Controtransfert (1992)

di Alexander Lowen

(Grounding 2013, n. 2)

“Lo scopo di ogni terapia analitica è quello di aiutare il paziente a capirsi, cioè a conoscere le ragioni dei suoi sentimenti e delle sue azioni. Nella psicoanalisi questo processo consiste nell’acquisizione di attitudini introspettive. Ciò consiste nel credere che, se un individuo può realmente capire il perché ed il come del suo comportamento, potrà cambiarlo in modo da risolvere i suoi conflitti e promuovere il suo benessere. Quando ciò avviene, i pazienti realizzano effettivamente dei progressi considerevoli nella qualità della loro vita. Ma il processo che permette di acquisire queste attitudini introspettive è difficile e complesso. I nostri occhi sono rivolti verso l’esterno e noi vediamo più facilmente gli altri di quanto vediamo noi stessi. Certo, possiamo guardarci allo specchio, ma la nostra visione è offuscata ed abbiamo grandi resistenze a vedere la verità del nostro essere. Durante lo sviluppo della psicoanalisi, Freud ha considerato sin da subito che queste resistenze dovevano essere riconosciute, analizzate e comprese, prima che lo sguardo del paziente potesse diventare sufficientemente chiaro da consentirgli di essere realmente capace di vedersi da sé. In una terapia analitica il terapeuta agisce come uno specchio nel quale il paziente può vedere il suo comportamento. Teoricamente, il terapeuta può vedere il paziente chiaramente, poiché egli è una realtà oggettiva ed il terapeuta non è soggetto alle distorsioni inerenti all’atto di guardare se stessi. Dovrebbe essere capace, sin da subito, di riflettere al paziente la verità del suo comportamento. Nella psicoanalisi classica, questa verità si svela attraverso le libere associazioni del paziente, i suoi lapsus ed i suoi sogni. Ma ciò richiede delle interpretazioni che il paziente può accettare o rifiutare. A volte l’accettazione del paziente è superficiale ed allora l’interpretazione è poco efficace. Questo si produce spesso poiché la verità è in generale troppo dolorosa ed il paziente ha eretto forti difese contro il dolore e questo costituisce la sua resistenza. Inoltre, la maggior parte dei pazienti hanno verso il loro terapeuta una diffidenza sotterranea che proviene dalle loro esperienze infantili con i propri genitori, quando erano obbligati ad accettare “una verità” che i loro sentimenti interiori riconoscevano come falsa. “Sei cattivo”. “Sei negativo”. “Non ascolti”. “Mi farai morire”. Tutti i pazienti hanno una certa diffidenza verso il loro analista o il loro terapeuta. Sono stati feriti e maltrattati dalle persone che si supponeva avessero dovuto amarli e sostenerli. Come possono essere sicuri che il terapeuta sia diverso? Sarebbero pazzi a fidarsi di lui prima di conoscerlo bene e di avere un’esperienza consistente della sua integrità. La loro dichiarazione di fiducia è ingenua ed io non ci credo quando la proclamano senza una solida esperienza che giustifichi tale fiducia. Questa profonda diffidenza di tutti i pazienti è il transfert negativo. Inconsciamente, il paziente vede il terapeuta come un’altra figura parentale che va a controllare ciò che fa in modo sbagliato e come dovrebbe cambiare per essere accettabile. Così, il paziente “trasferisce” sul terapeuta la sfiducia che ha provato da bambino nei confronti dei suoi genitori. È raro che un paziente arrivi in terapia ed esprima apertamente la sua diffidenza. Quasi sempre essa è mascherata dalla speranza che il terapeuta sarà diverso dai suoi genitori, che sarà comprensivo e capace di sostenere, che darà l’accettazione e l’amore incondizionato di cui avevano disperatamente bisogno da bambini, bisogno che sentono tuttora. Ma anche questo è transfert, perché egli proietta sul terapeuta l’immagine di un buon genitore il cui unico interesse sarebbe di aiutarlo a ritrovare la sua gioia di vivere. Un tale atteggiamento verso il terapeuta è chiamato transfert positivo. Questi due aspetti del transfert sono sempre presenti nel paziente, anche quando uno o l’altro è dominante o si presenta in superficie. Il transfert è un grande ostacolo al processo analitico perché impedisce al paziente di vedere la realtà del suo terapeuta. È contemporaneamente una forma di cecità che gli impedirà di vedere la sua realtà. Resterà attaccato ad una sfaldatura della sua percezione che consiste nel vedere il terapeuta o come saggio e comprensivo, oppure come ostile. Siccome nulla è perfetto, c’è del vero in entrambe le posizioni ed abbiamo bisogno di utilizzare entrambi gli occhi per comprendere la realtà. Per correggere una falsa visione, è necessario analizzare la distorsione. Nel caso della relazione terapeutica significa analizzare la situazione transferale. Il problema dell’analisi del transfert del paziente è che deve essere fatta dal terapeuta. Il fatto che una persona si consideri analista o terapeuta, non garantisce che la sua visione sia chiara in rapporto alle distorsioni legate alle sue esperienze infantili. La mia esperienza mi ha insegnato che nessuno è capace di eliminare completamente dalla sua personalità gli effetti dei traumi infantili. L’esperienza vissuta si è strutturata nel corpo ed anche se molto può essere fatto per diminuire i suoi effetti invalidanti, nessuno può essere ristabilito nello stato d’innocenza che esisteva prima del trauma. La nostra cultura è, in se stessa, distruttrice dell’innocenza e favorisce la corsa alla sofisticazione con la sua enfasi del potere e della manipolazione. Ciò significa che gli occhi di quasi tutti sono velati dalla proiezione dei sentimenti legati al transfert positivo e negativo. Teoricamente, i terapeuti che sono passati attraverso una terapia analitica dovrebbero essere liberi da queste distorsioni e, se la terapia è stata efficace, hanno una visione più chiara della maggior parte della gente. Ma nessuno è completamente libero. Il transfert del terapeuta verso il suo paziente si chiama controtransfert e costituisce l’ostacolo maggiore all’efficienza della terapia analitica. Nello sforzo per diminuire quest’ostacolo, i terapeuti principianti vengono incoraggiati a fare una supervisione con dei clinici esperti che possono aiutarli a riconoscere il loro controtransfert ed a controllarlo meglio. Inoltre, siamo sottomessi al fatto che i supervisori sono esseri umani che non vedono chiaramente con lo sguardo innocente dell’infanzia, ma lavorano facendo riferimento a delle sofisticate teorie psicologiche. Questa affermazione non è una condanna dei terapeuti e dei supervisori, ma è una parola di prudenza affinché non siamo ciechi davanti alle realtà della vita. Possiamo considerare questa questione da un altro punto di vista: quello della comprensione. Tutti i pazienti hanno un bisogno disperato d’essere visti e capiti. Quando un paziente si sente capito, si sviluppa tra lui ed il terapeuta un legame che paragonerei ad una corda di salvataggio lanciata ad una persona che sta per affogare. Il paziente affoga in una confusione che deriva dall’incapacità dei suoi genitori a considerarlo un essere umano libero ed innocente. È cresciuto con la sensazione di sbagliare, di essere colpevole, cattivo, ostile, ingrato ed ogni altra considerazione negativa, compresa quella di considerarsi un mostro. E siccome i suoi genitori non lo accettavano per quello che era veramente, cioè un essere innocente, ha dovuto credere che ciò che dicevano fosse vero. Se un bambino non è amato, si sente inadatto ad essere amato. Sentendosi inadatto ad essere amato, non è amabile e quindi incapace d’amare. In una tale situazione, dire al paziente che può essere amato, che tutto va bene, significa essere cieco alla sua confusione, al suo dolore ed alla sua disperazione. Non sentire la sua rabbia, spesso omicida, che è giusto in superficie, significa fallire nella comprensione della lotta del paziente per trovare la sua identità ed il suo Sé. Il terapeuta potrebbe rimanere nella posizione di considerare che sta al paziente rivelare e descrivere il suo problema interiore; ma se un paziente potesse fare ciò, perché avrebbe bisogno dell’aiuto di un terapeuta? I pazienti sanno che c’è qualcosa che non va, perché non si sentono bene e non sono in grado di venirne a capo, ma sono confusi. A dispetto dei loro sforzi per agire e comportarsi come i loro genitori volevano, non possono trovare gioia e realizzazione nella loro vita. Agire in contrapposizione a queste richieste, ribellarsi all’autorità non apporta migliore soluzione. Sia l’uno che l’altro di questi atteggiamenti portano ad una lotta che perpetua la disperazione. Il problema è che il paziente ha perso o abbandonato il suo Sé e non ha una guida interiore che lo aiuti ad agire in modo positivo per se stesso. Sentendosi confuso, si rivolge ad un terapeuta in modo da essere guidato nella ricerca del suo Sé. In questa ricerca il terapeuta è una guida. Ma una guida è valida solo nella misura in cui ha familiarità con il terreno attraverso il quale dovrà guidare la persona. Acquisirà questa conoscenza solo se avrà personalmente esplorato questo terreno ed avrà trovato la via per raggiungere il proprio Sé; cioè quel Sé che ha abbandonato quando, bambino, ha perso la sua innocenza. Perdendo l’innocenza ha perso anche la capacità di vedere con gli occhi chiari ed innocenti del bambino. E come nella storia del re nudo, è abbagliato dalla trappola del successo e del potere e cieco davanti alla realtà. Nella celebre favola solo un bambino piccolo poteva veramente vedere che il re era nudo, come d’altronde lo siamo tutti agli occhi del bambino.

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Monika illustra questa situazione. Era venuta ad un seminario che face- vo per dei professionisti della salute mentale. Siccome era un’esperienza di analisi bioenergetica, i partecipanti portavano delle calzamaglie o dei cal- zoncini corti in modo che io potessi vedere i loro corpi. Quando Monika è venuta a lavorare con me, ho potuto facilmente vedere che il suo corpo era severamente perturbato. Il suo collo e la vita erano molto contratti, ciò che produceva un taglio tra la testa ed il resto del corpo così come tra il torace ed il bacino. Quando le ho chiesto di picchiare il materasso con i piedi e di dire con una voce forte “perché?”, era incapace di mobilizzare un qualun- que sentimento autentico nel suo picchiare coi piedi e nella sua voce. Gliel’ho fatto notare, commentando che secondo me aveva un grosso pro- blema. Monika mi disse in seguito che sentiva d’avere un grosso problema, ma che nessuno dei suoi terapeuti precedenti sembrava esserne consapevo- le. La vedevano come una persona dotata di competenza ed in grado di riu- scire, intelligente, sofisticata ed apparentemente sicura di sé. Era una fac- ciata che nascondeva una disposizione completamente opposta che non era visibile, a meno di guardare il suo corpo.

Ho visto, diversi anni fa, una paziente che chiamerò Daisy e che rappre- sentava drammaticamente questo problema. Aveva già visto un altro tera- peuta per un certo periodo di tempo, ma era insoddisfatta di quest’analisi.

Quando ho guardato il suo corpo allungato sul divano, sono rimasto colpito dall’incongruenza maggiore del suo modo di apparire. La sua testa era pic- cola ed il suo viso sembrava quello di una ragazzina. Il suo corpo, d’altra parte, era massiccio e un po’ paffuto. Mentre il suo viso era pallido, la pelle del corpo era rosea, cosa che, associata alle sue rotondità, mi ha fatto pen- sare ad una pesca matura, pronta per essere colta e mangiata. Ho considera- to questo come un’espressione sessuale, cosa che significava che per un certo aspetto della sua personalità questa paziente era una ragazzina terro- rizzata, mentre da un altro era un oggetto sessuale attraente. Ma c’era anco- ra un terzo aspetto. Daisy era esperta in informatica. Ciò significava che aveva una vivace intelligenza logica. Ma quale di questi tre aspetti le corri- spondeva maggiormente? Se si identificava con tutti e tre, come poteva funzionare nel mondo? Come viveva con se stessa?

Vedendola così non potei fare a meno d’esprimere i miei sentimenti. Le dissi: “Daisy, non so come fai a non impazzire, o a non suicidarti”. Ebbi l’impressione che si trattasse di un’affermazione scioccante per una persona disperata, ma Daisy mi guardò con le lacrime agli occhi e disse: “Grazie a Dio”. La sua affermazione mi indicò che si sentiva capita, cosa che era un gran sollievo per lei. La sensazione che nessuno capisca ciò che viviamo può farci sentire folli. Resi Daisy partecipe delle mie interpretazioni e le suggerii che la sua scissione era legata ad esperienze infantili precoci di seduzione e di abuso sessuale. Ciò aveva un senso per lei e l’aiutò a ridurre la sua confusione. Ho visto Daisy solo per alcune sedute perché fu trasferita in California. In seguito ho ricevuto sue notizie ed ho saputo che stava be- ne. Il ricordo di questa prima seduta non mi ha mai lasciato.

Ricordo un altro caso in cui la vista del corpo mi permise di capire una paziente ed i suoi problemi. La paziente mi aveva consultato per dei pro- blemi coniugali. Si trattava di una giovane donna seducente, equilibrata e sofisticata. Quando si mise in costume da bagno in modo che potessi vede- re il suo corpo, arretrai! Il corpo che vedevo era quello di una preadolescen- te e capii subito perché aveva dei problemi nella sua relazione coniugale. Quando era vestita, non potevo sospettare il grado di immaturità emotiva rivelato dal suo corpo.

Negli anni successivi ho imparato a vedere più chiaramente ciò che e- sprime il corpo dei miei pazienti. Naturalmente ascolto ciò che mi dicono ma, mentre mi dicono qualcosa della loro vita e della loro storia, guardo l’espressione del loro viso, i loro occhi, il modo in cui gesticolano e come siedono. Concentro l’attenzione sul tono della voce. A volte ciò che il pa- ziente dice è in accordo con ciò che vedo nella sua espressione corporea, ma spesso le parole contraddicono questa espressione. Una persona può dirmi che ricorda d’aver avuto un’infanzia felice, mentre i suoi occhi sono

spenti, il suo corpo ha un’apparenza intorpidita e relativamente priva di vita. Un’infanzia felice non mortifica il corpo. Un tale corpo mostra che la persona ha dovuto bloccare i suoi sentimenti perché era troppo doloroso viverli. Raramente esito ad indicare ciò ad un paziente, perché credo che solo la verità possa rendere liberi. Il corpo non mente. La sua espressione è la verità dell’individuo.

Alcune persone che vengono a trovarmi non sono pronte a mostrare il loro corpo. Se sono sincere nel desiderio di conoscersi, posso lavorare con loro come un terapeuta analitico classico, nella misura in cui il corpo dà sufficienti indicazioni anche quando è vestito. Un osservatore capace può cogliere molto di un individuo dai seguenti segni: la postura, la gestualità, il tono della voce, ecc.. Si può anche lavorare, da un punto di vista analitico, sulla vergogna o sulla paura di esporsi. Il rifiuto di esporsi nella situazione di terapia è un’espressione di resistenza e di transfert, poiché la terapia non richiede maggiore esposizione corporea rispetto a quella in cui ci si sente a proprio agio su di una spiaggia. Quindi deve essere considerato subito co- me una diffidenza nei confronti del terapeuta. Purtroppo questa diffidenza è giustificata in alcuni casi in cui i terapeuti non sono liberi da attitudini con- trotransferali nelle quali vedono i corpi solo come oggetti sessuali. D’altra parte, i terapeuti analitici che sono terrorizzati all’idea di guardare il corpo con la sua natura sessuale, sono ugualmente colpevoli di transfert negativo. Se il terapeuta non è a suo agio nel suo corpo e con i sentimenti che prova, eviterà, consciamente o inconsciamente, d’avere a che fare con il corpo ed i sentimenti dei suoi pazienti. Così, se il suo corpo è rigido, avrà la tendenza ad ignorare la rigidità presente nel corpo del paziente. Se il suo viso è teso e mascherato, eviterà di confrontare il paziente con un’espressione simile presente sul suo volto. Se il suo corpo manca di agilità e di grazia, sarà re- stio a portare l’attenzione sulla mancanza di grazie e di agilità del corpo dei suoi pazienti. Se presta attenzione a queste perturbazioni nel suo paziente, dovrà poter considerare le sue deficienze allo stesso proposito. Nella misura in cui ignora i suoi problemi corporei, sarà per forza cieco a quelli dei suoi pazienti.

Si tratta di controtransfert, poiché ciò significa che il paziente è conside- rato in funzione dei valori del terapeuta. Se un terapeuta pensa che le emo- zioni devono essere controllate, proietterà questa credenza sul suo paziente, esplicitamente o implicitamente. Ma il suo tono di voce piatto e controllato trasmette un messaggio che il paziente non può ignorare. Dall’altra parte, se per il terapeuta ogni emozione è accettabile, influenzerà il paziente che è portato ad una tale attitudine. Molti pazienti mi hanno detto che non pote- vano esprimere i loro sentimenti intensi perché temevano che il terapeuta non sarebbe stato in grado di venirne a capo. Poiché la stessa cosa accadeva

nella loro infanzia, sono presi nello medesimo dilemma e nello stesso con- flitto che avevano vissuto da bambini.

Vi sono dunque due aspetti nel problema del controtransfert: uno è un’incapacità a vedere il paziente per com’è veramente, e l’altro è la proie- zione inconsapevole dei valori del terapeuta sul paziente e la terapia. I due aspetti derivano dallo stesso problema del terapeuta, cioè dal sapere che è stato strutturato dalla sua storia e dalla sua formazione, che gli hanno ruba- to l‘innocenza e distrutto la libertà. Ciò accade a ciascuno di noi nella no- stra cultura e la maggior parte di noi reagisce provando a fare della sotto- missione una virtù. Cerchiamo di trovare delle ragioni per essere “buoni”, ragionevoli e di perdonare. Questi sono valori positivi che, però, diventano negativi quando sono mantenuti a scapito di se stessi, quando essere buoni è, in effetti, essere sottomessi ed essere ragionevoli è la negazione dei pro- pri sentimenti e perdonare è l’accettazione della propria sofferenza. I tera- peuti sono sottomessi a questo processo come ognuno di noi ed hanno adot- tato i valori della loro cultura che istituisce la sofisticazione, il sapere ed il controllo al rango di valori supremi della vita.

Una psicoterapia che crede nel potere dello spirito razionale per guarire la malattia dell’anima dell’uomo moderno è irreale. Ignora il ruolo potente delle emozioni nella vita umana ed il fatto che le emozioni sono la vita del corpo, come i pensieri sono la vita dello spirito. Non si possono creare sen- timenti attraverso un processo mentale. Nessuno può innamorarsi attraverso un qualsiasi atto del pensiero consapevole. Non possiamo provare rabbia con un atto di volontà. Ed, evidentemente, non possiamo provare gioia con un qualunque tipo di ginnastica mentale. Il pensiero consapevole può sop- primere il sentimento, ma non provocarlo. Possiamo distruggere la vita con un atto di volontà, ma non possiamo crearla. Ciò non significa che il pen- siero non abbia alcun ruolo nel processo analitico, ma che questo si limita a rendere possibile la comprensione di ciò che è accaduto. Il cambiamento può avvenire solo se una forza ed un’energia sufficiente sono mobilizzate per eliminare i legami che imprigionano lo spirito. Questi legami sono fisici ed esistono nel corpo sotto forma di tensioni muscolari croniche che bloc- cano il completo fluire dell’eccitazione nel corpo così come la completa espressione dei sentimenti. La riduzione di queste tensioni cambia la forma e la motilità del corpo. La sua forma diventa più bella ed il suo movimento più aggraziato. È solo nella misura in cui possiamo osservare questi cam- biamenti nel corpo che possiamo parlare di significativo miglioramento.

Se il problema del controtransfert risiede nell’incapacità del terapeuta di vedere le realtà della vita del corpo, questo è anche il problema del paziente in termini di transfert. Questo può presentarsi sotto forma di convinzione che il terapeuta sia una persona speciale, dotato di magia e che può cambiare la vita del paziente. La magia procede attraverso la comprensione e l’amore, che sono entrambe potenti forze di cura e di crescita. Ma questa magia è inefficace nella situazione terapeutica. Il cambiamento può avveni- re solo quando il paziente acquisisce la capacità di capirsi e sviluppa un vero amore per se stesso. La comprensione e la cura del terapeuta sono condizioni necessarie perché ciò accada, ma non bastano a produrre il risul- tato desiderato. Il paziente non può ricevere e rispondere all’amore ed alla comprensione del terapeuta perché è chiuso in forti tensioni muscolari cro- niche che gli impediscono di aprirsi a tali sentimenti. Un buon esempio di ciò è la tensione diffusa della mascella e della bocca, che nei fatti dicono: “Non mi aprirò a te perché mi fai soffrire”. Questo si manifesta nell’incapacità del paziente di protendersi liberamente verso l’altro con le labbra, senza spingere con forza la mascella in avanti in segno di diffiden- za. Le mascelle sono la sede di una collera repressa che deve essere libera- ta, prima che la capacità di protendersi possa essere ripristinata completa- mente. La comprensione del terapeuta aiuterà il paziente a prendere contat- to con la tensione, a sentire l’emozione repressa e ad esprimerla in modo appropriato nella situazione terapeutica. La collera può essere espressa con parole o attraverso l’atto di mordere. Può essere necessario esprimerla mol- te volte prima che la tensione possa scaricarsi completamente. Quando è stata completamente scaricata, la via è aperta per una libera espressione dei sentimenti amorevoli provenienti dal paziente. È questa manifestazione dell’amore del paziente che conduce alla gioia.

I pazienti possono anche bloccare il loro amore con le tensioni del loro torace e la limitazione della respirazione. A volte possono provare amore nel loro cuore ma non possono esprimerlo con dolcezza, fintanto che il loro torace e la gola sono contratti. La mia comprensione può aiutarli a sentire il problema, ma la loro comprensione è necessaria perché possano risolverlo effettivamente. Le mie cure possono permettere loro di far fronte alla soffe- renza del cuore infranto contenuta nella tensione del loro torace ristretto, ma solo l’esperienza di questa sofferenza e dei singhiozzi profondi che ne derivano rilasserà il loro torace in modo che l’amore possa esprimersi pie- namente.

La sfida per i pazienti è di destreggiarsi con la sofferenza del passato che ora è strutturata nel corpo. Per affrontare questa sofferenza avranno bisogno del mio supporto morale e del mio incoraggiamento, ma non posso farlo al posto loro, come non posso rendere facile la lotta per la salute. Se provo a farlo sostenendoli o amandoli li riduco a bambini, che sono e reste- ranno dipendenti da me. Può essere che si sentano temporaneamente al si- curo se agisco così, ma li avrò privati dell’opportunità di diventare più ma- turi e di trovare la gioia e la realizzazione nel loro stato di adulti.

Ciò nonostante i pazienti sentono il bisogno di essere sostenuti, d’essere amati e che ci si prenda cura di loro. È un bisogno insoddisfatto che provie- ne dall’infanzia e che ora è strutturato nel corpo sotto forma di incapacità ad auto-soddisfarsi. Un adulto, che sia un vero adulto, può stare sui suoi piedi, prendersi cura di se stesso e trovare amore. Può trovare amore perché può dare amore. È allora amabile, cioè capace d’amare e sentirà la gioia di esserne capace.

La grande scommessa della terapia è di aiutare il paziente a superare il sentimento di bisogno dell’altro. Nella nostra cultura, quasi tutti i bambini soffrono di una certa quantità di mancanza di contatto e di sostegno amore- vole da parte dei genitori. La lamentela più comune dei pazienti è che la loro madre, o il loro padre, non era lì per loro quando ne avevano bisogno. Questo sentimento di bisogno dell’altro è trasferito sul terapeuta o, nella relazione di coppia, sulla moglie o sul marito. Come ho indicato prima, questo bisogno non può essere soddisfatto in una relazione adulta. Il tenta- tivo di farlo mina e distrugge inevitabilmente la relazione. Il mio approccio a questo problema è semplice. Riconosco il sentimento di bisogno provato dal paziente, ma gli faccio notare che ciò di cui ha bisogno, in realtà, è di se stesso. Se una persona può ricorrere a se stessa, non ha bisogno dell’altro. Può desiderare d’essere vicina agli altri, anche molto vicina ad un altro, ma non c’è disperazione in questo desiderio. Chi ha bisogno dell’altro è dispe- rato.

Il fine della terapia, ed in modo particolare dell’analisi bioenergetica, è di aiutare l’individuo a scoprirsi da solo. Ciò implica la progressione dalla consapevolezza di sé, all’espressione di sé ed, infine, al possesso di sé. La chiave di questo lavoro è il corpo, il quale è la persona. Man mano che il corpo diventa più vivo, la persona lo sente maggiormente ed è più sponta- nea nell’espressione dei suoi sentimenti e più identificata e più padrona delle sue azioni. La chiave di questo processo è la respirazione. Una respi- razione più profonda e completa fornisce energia e crea flussi d’eccitazione che riempiono il corpo di sentimenti e di vita. Quando la respirazione è de- bole, l’assenza di sensazioni in alcune parti del corpo porta ad una sensa- zione di vuoto in quelle stesse parti. Questa sensazione di vuoto si traduce in un’idea: “Ho bisogno di qualcuno”. La sensazione di vuoto è localizzata nel basso ventre e può essere rivelata alla palpazione sotto forma di un “bu- co”, quando si effettua una pressione lieve con il pugno in questa zona. Fa- re respirare il paziente contro il pugno mobilita questa zona e fa scomparire temporaneamente la sensazione di vuoto. Una respirazione completa e pro- fonda permette alle ondate d’eccitazione di scorrere profondamente nella pelvi e produce in questa zona una sensazione di pienezza percepita pro- fondamente dalla persona.

Molti terapeuti rispondono al bisogno dell’altro, vissuto dal paziente, of- frendo se stessi. Essi gli offrono “di essere là” psicologicamente o sessual- mente, come oggetti d’amore. Molti terapeuti sono essi stessi individui che hanno bisogno degli altri e che usano i pazienti per colmare il loro vuoto interiore. Si tratta del controtransfert della peggiore specie perché crea un vincolo al quale il paziente si aggrappa e che gli fa perdere la sua libertà, essenziale per il sentimento di gioia.

Nella relazione terapeutica i ruoli spesso s’invertono, come era avvenuto nella vita del paziente. Sentendo il bisogno che il terapeuta ha dell’altro, il paziente gli offre il suo amore in un modo o nell’altro. Così per esempio: “Cercherò di stare meglio in modo che tu possa sentirti un buon terapeuta nel tuo lavoro con me”, oppure, “non posso abbandonare la terapia perché ciò ti ferirebbe”. Quante volte ho sentito dire queste cose da alcuni pazienti! L’attitudine a sentirsi responsabili per il benessere del terapeuta è il trans- fert di un atteggiamento simile che il paziente aveva nei confronti del geni- tore. L’inversione dei ruoli è frequente nell’infanzia. Le ragazzine diventa- no madri delle loro madri e, più spesso ancora, spose per i padri. I bambini sono molto sensibili ai sentimenti dei genitori. Quando un genitore è de- presso, malato o triste, l’impulso naturale del bambino è quello di provare a fare in modo che si senta meglio. Un genitore più felice rende il bambino più felice. Se teniamo conto che i terapeuti sono considerati come sostituti delle figure parentali, si capisce che è molto facile per un paziente trasferire sul terapeuta le cure che prodigava al genitore.

Un tale transfert limita gravemente la terapia perché distrae il paziente dalla concentrazione sui suoi problemi. In effetti, questa situazione provie- ne da un problema maggiore inscritto nella personalità del paziente, perché deriva dal sentimento di colpa che prova nel chiedere soddisfazione dei suoi bisogni. Troppi pazienti sentono che non hanno diritto di chiedere ciò che desiderano. L’espressione personale implica il diritto d’essere aggressi- vi per arrivare a soddisfare i propri bisogni ed i propri desideri. Dire ciò che si vuole, ed esporsi per questo, è il segno di un Sé in buona salute. Questo deve essere incoraggiato nella terapia poiché l’espressione personale è de- bole in tutti i pazienti. E questo deve essere incoraggiato nella relazione col terapeuta. “Cosa vuoi in generale” e “cosa vuoi da me”, sono domande im- portanti da fare ai pazienti. Non bisogna stupirsi che la maggior parte dei pazienti abbiano difficoltà a rispondere a queste domande.

In ogni caso bisogna prendere in considerazione il transfert che si mani- festa in forma positiva verso il terapeuta ed analizzarlo poiché maschera un’ostilità ed una rabbia considerevole. In realtà il paziente è stato inganna- to nel suo diritto naturale a cercare la felicità. La sua colpa è direttamente proporzionale alla collera repressa.

Da lì non è possibile farlo evolvere finché non fa esperienza della sua collera e non la esprime in modo adeguato, cioè picchiando il materasso nel setting terapeutico. L’analisi del transfert aiuta a chiarire questa scommes- sa, ma non cambia la dinamica del problema del paziente. Solo la libera- zione della collera permette al naturale impulso aggressivo di circolare libe- ramente.

Gli analisti ben formati hanno l’abitudine di affrontare il transfert ed il controtransfert nella situazione analitica. Purtroppo, la loro conoscenza si estende solo alla dimensione psicologica. Non capiscono il transfert ed il controtransfert come inerente alla struttura caratteriale dell’individuo. Ciò li rende ciechi alle vie insidiose attraverso le quali il transfert ed il controtran- sfert agiscono nella situazione terapeutica. Ciò è particolarmente evidente nella struttura caratteriale della “persona buona” poiché il paziente cerca di compiacere il terapeuta. Questo fu il caso di Anna, con la quale ho lavorato diversi anni. Era una donna piuttosto tozza, con gambe e braccia corte. Era una professionista brillante ed educata ma non esprimeva i suoi sentimenti. Era stata violentata da bambina da un uomo più grande e dal suo fratello maggiore. Aveva vissuto con confusione la sua identità sessuale da adole- scente e da giovane donna. Al momento della terapia viveva con il marito ed il figlio. Il suo problema maggiore era l’incapacità a far valere le sue posizioni ed a dire “no!”. Era chiaro ad entrambi che si sentiva una persona debole. La sua capacità aggressiva era molto limitata. Portarla a piangere ed a picchiare il materasso dicendo “no” in modo vigoroso faceva regolarmen- te parte delle sue sedute e l’aiutò a cavarsela in molte occasioni della vita, come, ad esempio, far fronte ai suoi impiegati, tenere la suocera fuori dalla sua vita e non essere sessualmente sottomessa al marito. In queste situazio- ni vedeva dei progressi lenti ma reali che le davano soddisfazione. Il cam- biamento a livello corporeo non era significativo anche se si sentiva meglio ed aveva più energia.

Dopo un’interruzione di alcuni mesi, tornò in terapia con la sensazione d’aver bisogno di lavorare maggiormente. Aveva fatto un grande passo cre- ando una sua impresa. Da una parte era eccitata da questo progresso, ma dall’altra parte, sentiva una disperazione che non aveva mai sentito prima. La terapia aveva portato un notevole miglioramento nella sua capacità di sbrogliarsela nelle cose pratiche della vita, ma non l’aveva resa capace di trovare un qualunque sentimento di gioia o di appagamento. Mi confidò questo: “Per tutta la vita ho avuto la sensazione di essere lì per caso. È il motivo per cui cerco di piacere, compio delle performance. Ho sentito che era una cosa collegata ai miei genitori ed a lei. Non ho fatto gli esercizi che mi ha suggerito, ero diffidente e spaventata. Avevo paura della sua collera e della mia nei suoi confronti. Non volevo venire oggi. Da bambina, ero indietro a scuola, a causa di un’immaturità. Non avevo buoni risultati in ma- tematica ed in latino. C’era una vecchia insegnante che tutti consideravano una strega. Le ho detto che tutta la classe si lamentava di lei. Mi ha fatto portare tutti i bambini da lei e li ha interrogati circa i loro sentimenti. La metà di loro vennero ma smentirono ciò che avevano detto. Fui isolata per un anno. Mi vergognavo e mi sentivo orribile. Mi sono sentito una nullità. Ho fatto un sogno in cui le ho tirato un calcio alla gamba”.

Le ho fatto mettere in scena il sogno e lei mi ha tirato un calcio alla gamba, poi mi ha detto: “Ha ragione. Non posso tenerle testa. Lei ha sem- pre ragione. Non posso vincere. Ed era la stessa cosa con mio padre. Ero terrorizzata da lui. Poteva essere violento. Picchiava con violenza mio fra- tello. A casa aveva l’abitudine di urlare e d’arrabbiarsi. Ho pensato che lei non vede mai quando sono carina. Vede questa donna orribile. Quando ero piccola mi chiamavano raggio di sole. Avevo bisogno dell’amore di mio padre”. Riversa sul cavalletto iniziò a piangere dicendo: “Non sono per niente felice. Non riesco a trovare alcun sentimento positivo dentro di me. Mi vivo sempre come una persona infelice”.

Chiesi ad Anna: “Che cosa ti avrebbe reso felice?”. Rispose: “Ricordo che da bambina giocavo ed ero spontanea. Fu il mio periodo felice. Non sono più eccitata dalla vita. Se ho ottenuto del piacere è perché ho faticato per averlo. Non è arrivato da solo. Ciò che mi aspetto è d’abbandonare la mia resistenza. È stata necessaria per proteggere la mia integrità, ma mi ha tenuta da parte”.

Devo ammettere che non avevo mai sentito la sua resistenza, probabil- mente perché neppure lei la sentiva. Sapevamo che era lì. Era la resistenza a lasciarsi andare. Non tratto una resistenza finché non sento che il paziente sta facendo dei progressi significativi, che si sta aprendo. Ma in ogni tera- pia arriva un momento in cui il progresso si blocca ed, improvvisamente, emerge una sensazione di disperazione e di fallimento. Il paziente è terro- rizzato anche se può non essere consapevole di ciò che sta accadendo. Ciò si manifesta con una resistenza a qualunque lavoro corporeo intensivo sup- plementare.

Ogni terapia deve conoscere dei fallimenti prima di poter riuscire. Lo stallo è dovuto al fatto che una parte della risposta del paziente deriva dal desiderio di piacere, cercando di fare ciò che entrambi abbiamo ritenuto necessario. Ma, il tentativo di piacere o di fare in modo che funzioni, è, in parte, una resistenza contro il riemergere o il lasciare andare. Finché ci si prova, si controlla. Al momento del fallimento che provoca la sensazione d’impotenza, la resistenza si sviluppa perché, allora, esiste la possibilità dell’emergenza di materiale profondo.

Chiesi ad Anna di cosa avesse paura se abbandonava la sua resistenza.

Lei disse: “Perderei i miei confini, sparirei”. Aveva detto, in precedenza, che aveva preservato la sua integrità resistendo. Spiegò: “Mi sentivo felice quando ero il raggio di sole di mio padre, la sua piccolina, avevo il potere di farlo sorridere. Potevo sedermi sulle sue ginocchia. Non poteva resister- mi. Ho perso questo potere quando sono diventata matura sessualmente, quando il mio seno è cresciuto”.

“Non ho mai fatto l’amore con il mio compagno prima della morte di mio padre”. Anna esprimeva il fatto che era legata a suo padre e che solo dopo la sua morte era riuscita a sentirsi libera – la libertà di una donna ses- suale. Ma ha acquisito questa libertà a spese di profondi sentimenti d’amore che erano identificati con il legame con suo padre. La sua disperazione era di non poter mai essere una donna sessuale, cioè libera, con l’uomo che amava, di non poter amare l’uomo a cui si dava sessualmente. Tutto ad un tratto la sua sessualità aveva un aspetto sottomesso. Come si applicava ciò a me ed alla sua terapia? Mi disse: “Ho provato nel mio cuore dell’amore e dell’at-tenzione nei suoi confronti, ma non ho potuto lasciarlo circolare li- beramente in me per la mia vergogna e la mia paura. Mostrare la mia atten- zione sessuale nei suoi confronti mi farebbe sentire vulnerabile e debole”.

Quando Anna arrivò alla sua seduta successiva, due settimane dopo, fe- ce questa osservazione: “Ho imparato due cose da questa seduta. Ho impa- rato qualcosa a proposito della mia resistenza. Era la prima volta che ne ero realmente consapevole. Ho imparato anche che dire “no” non è una resi- stenza. Parlare più apertamente significa meno resistenza alla vita. Sono terrorizzata all’idea di affermarmi perché allora sarei abbandonata. Se non faccio piacere alla gente, questa se ne va. Ho sentito che una porta si apriva dopo questa seduta e che tutto si metteva a posto. Ho sognato che avevo un bambino e che il contatto mi faceva bene. Allora ho dimenticato il bambi- no. Ho capito che ero stata sessualmente abusata. Rifiutando il mio corpo ho rifiutato me stessa e sono diventata un batacchio.

Questa presa di coscienza non significava che il problema di Anna fosse completamente risolto. La porta si era aperta e aveva capito il problema ma, come aveva notato, poi si era richiusa. Aveva avuto una visione profonda di se stessa, ma la capacità di fare di questa conoscenza un utilizzo effettivo per la sua liberazione dipendeva dalla pratica. Uno degli esercizi che usavo a questo riguardo era di picchiare il materasso dicendo a tutti d’andare al diavolo, gridando: “non ho bisogno di te!”. Fin quando una persona è nel bisogno del-l’altro, non può essere libera.

Distesa sul letto Anna cominciò a picchiare e a dire “andate al diavo- lo!”. Dopo averlo detto qualche volta, le chiesi di nominare le persone che voleva mandare al diavolo. Cominciò da suo padre, poi sua madre, suo ma- rito, il suo datore di lavoro, qualche amico e suo figlio. Le feci notare che aveva dimenticato una persona da cui era terrorizzata all’idea di separarsi: me. Accettò la sfida e cominciò a picchiare dicendo: “Non ho bisogno di lei dott. Lowen”. E poi gridò: “Potete andare al diavolo”. Il grido liberò una forte carica che dilagò attraverso il suo corpo. Mi sorrise e disse: “Sento di crescere”.

Non possiamo amare se non siamo liberi, poiché l’amore è la condivi- sione della gioia che sentiamo. Senza libertà interiore ed esteriore non vi è gioia. Ma per un bambino, non vi è gioia se non si sente amato. La maggior parte dei pazienti vogliono essere amati dal terapeuta per superare la sensa- zione di rifiuto che hanno sperimentato con i loro genitori. Alcuni si sforze- ranno di ottenere quest’amore in quanto buoni pazienti, mentre altri posso- no, per ottenere lo stesso scopo, agire in modo sessualmente seduttivo di fronte al terapeuta di sesso opposto. Nello stesso tempo, il paziente diffida del terapeuta, poiché nessun paziente crede realmente di poter essere amato per se stesso. Generalmente la diffidenza è negata nell’interesse del trans- fert positivo, ma è sempre là. Emerge eventualmente, come fu il caso di Anna, nella sensazione d’essere rifiutati se si esprime una qualche idea ne- gativa circa il terapeuta. Questo trattenere l’espressione di sentimenti nega- tivi nei confronti del terapeuta agisce come un freno nel processo terapeuti- co e potrebbe condurlo ad una impasse. A questo punto i sentimenti negati- vi emergono e, se sono convenientemente temuti, aprono un passaggio ver- so la libertà del paziente. Questi impara che non sarà rifiutato se tiene testa e se parla apertamente. Ma l’espressione di sentimenti negativi ha senso solo se il paziente è in un transfert positivo, cioè alla ricerca dell’amore del terapeuta. Alcuni pazienti sono apertamente diffidenti e negativi all’inizio della terapia. Tali pazienti troveranno sempre qualcosa da criticare a propo- sito della terapia. Benché sia essenziale, per loro, poter esprimere libera- mente i pensieri negativi, ciò non è vantaggioso per la loro sensazione di gioia. È, in effetti, un’altra forma di resistenza, una difesa contro la possibi- lità di abbandonarsi, una paura di amare. Ma non si può biasimare il pazien- te per un tale comportamento. Bisogna capire perché ha paura. Ed è sempre paura della sessualità.

La decadenza della grazia, la perdita dell’innocenza, sono legate ad una sensazione di vergogna e di colpa a proposito della sessualità. I bambini diventano consapevoli della loro sessualità verso i tre anni. Questa consa- pevolezza è associata all’esperienza dell’eccitazione sessuale nei momenti di contatto con i genitori di sesso opposto. Se un genitore è assente da casa, l’eccitazione può essere sentita con un membro della famiglia (uno zio od una zia, un amico di famiglia od un altro genitore). A tre anni il bambino entra nella fase genitale della sua organizzazione libidica, ciò significa che la corrente d’eccitazione che esiste nel corpo è ancorata all’apparato genitale

  1. Da tre a sei anni le sensazioni sessuali diventano più forti ed il compor- tamento del bambino esprime il suo interesse per il sesso opposto. Que- st’interesse si esprime nel desiderio di toccare e di essere fisicamente vicino all’oggetto sessuale ma non ha per fine la relazione sessuale. L’innocenza implica un’assenza di conoscenza a proposito del coito.

Dopo i sei anni la forte eccitazione sessuale diminuisce. In precedenza c’era nel bambino una proliferazione di ormoni sessuali che testimoniano l’importanza della sessualità. Questo termina in seguito, nella maggior par- te dei casi, ed il bambino entra nel periodo di latenza nel corso del quale l’eccitazione e l’interesse sessuale sono relativamente in riposo. Alla puber- tà, come sappiamo tutti, la sessualità si afferma nella sua forma matura nel- la misura in cui il bambino cresce lentamente verso lo stadio adulto. Se questo sviluppo si svolge naturalmente, il bambino diventa una persona sessuata in buona salute, con una forte consapevolezza di se stesso ed una pulsione sessuale altrettanto forte. Il bambino ha allora sviluppato un grado di possesso di sé che si manifesta nel fatto che la sessualità non passa mai all’at-to, ma è espressa attraverso canali che favoriscono il benessere e la gioia dell’individuo. Durante la vita adulta la sessualità è una delle maggio- ri sorgenti di gioia, ma funziona così solo se è integrata nel-l’insieme della personalità. La testa, il cuore ed il sesso agiscono in armonia. Ciò avviene quando il flusso di eccitazione è libero e completo dalla testa alle dita dei piedi, in modo che un’azione non sia una parte separata dell’insieme.

Questo stato di completa integrazione è raro nella nostra cultura che de- dica un culto al potere, al fare ed alla “riuscita” dell’amore, dell’essere e della gioia. Siamo persone dominate dalla testa per cui il sesso è un’azione guidata da un fine e non un’esperienza spirituale.

Cerchiamo di controllare la vita perché non ne abbiamo fiducia. Siamo invischiati in una logica economica che misura tutto in denaro. Giudichia- mo noi stessi e tutto ciò che facciamo. Non siamo liberi e c’è poca gioia nelle nostre vite. Non rispettandoci, non rispettiamo neppure gli altri.

Può un bambino crescere in buona salute in una casa dove non c’è amo- re e rispetto tra i genitori? Non credo. Dei genitori che hanno perso la loro innocenza non possono capire l’innocenza dei bei sentimenti sessuali di un bambino. Quando una madre vede sua figlia mostrare interesse sessuale per suo padre, reprime la bambina e la tratta da depravata, sporca, immorale, ecc … Anche la sensualità è cattiva. Durante una seduta chiesi ad Anna di mettersi il pollice in bocca. Le fu impossibile farlo. Disse che non aveva un buon sapore. Non ricordava d’aver mai succhiato il suo pollice. Se lo aves- se fatto sua madre le avrebbe dato una pacca sulla mano. Disse che sua ma- dre la controllava sempre in modo da essere sicura che non si masturbasse e che non ci fossero giochi sessuali con gli altri bambini.

Ma, se molte madri puniscono le loro figlie quando esprimono senti- menti sessuali, i padri, rispondono spesso in modo diverso poiché questi sentimenti sono loro indirizzati. Ciò li eccita, e spesso, la forma d’amore che la figlia offre loro è una cosa che hanno disperatamente atteso dalla loro donna. Questo amore esprime gioia e fa loro bene. Ma li eccita ses- sualmente, cosa che li terrorizza. Non possono abbandonarsi alle loro sen- sazioni perché non sono innocenti. Sanno che essere eccitati sessualmente dalla propria figlia è male. I padri sono presi, allora, in un conflitto che li tormenta.

Un altro aspetto di questa situazione è la reazione della madre. Vedere il marito “acceso” dalla figlia quando non lo è da lei, suscita sentimenti di gelosia e di collera. Purtroppo, questi sentimenti si rivolgono ad una ragaz- zina innocente che è terrorizzata dalla madre, ciò che mina la sua sicurezza. Questa situazione la costringe a rivolgersi al padre per trovare amore e pro- tezione. Ora, è egli stesso terrorizzato dalla madre, poiché si sente colpevo- le per la natura del suo legame con la figlia. Se la protegge contro la madre può attirarle ancora più aggressività. Inoltre, se non è psicopatico, è altret- tanto terrorizzato dai suoi sentimenti incestuosi verso la figlia. Può negare il suo interesse sessuale per la figlia ed allora si presenteranno due modi d’agire. Può darsi che la respinga e la biasimi dalla sua posizione di rivale. Essa diventa la donna “cattiva” e crescerà con la sensazione che ci sia qual- cosa di perverso nella sua natura. Oppure, può accettarla come il suo sole e la sua principessa, a condizione che abbandoni i suoi sentimenti sessuali. Essa è allora la “brava figlia”, la ragazzina di papà. Crescendo, la figlia sarà sorretta da questi due ruoli. Anna è diventata la “brava figlia”, brava stu- dentessa e brava lavoratrice. Questa strada l’ha portata a restare una donna insoddisfatta nella sua vita amorosa, in modo da non trovarsi nella posizio- ne di vivere la sua sessualità come passaggio all’atto. La situazione della “cattiva figlia” è generalmente più confusa. I suoi passaggi all’atto sessuale sono uno sforzo disperato per trovare un uomo che accetterà la sua sessuali- tà come una positiva espressione d’amore. Ciò non può avvenire intanto che lei stessa non è in grado d’accettare la sua sessualità come amore. Sic- come il problema edipico, anche se varia in quanto a grado, è universale nella nostra cultura, tutte le donne che vengono in terapia proiettano sul loro terapeuta gli atteggiamenti che i loro genitori hanno avuto verso di lo- ro. Con un terapeuta uomo esse si comporteranno sia come “brave ragaz- ze”sia come “cattive ragazze”. La “brava ragazza” cercherà di conquistare l’amore del terapeuta realizzando delle performance e portandogli del ma- teriale, detto in altri termini, cercando d’essere o di fare ciò che egli vuole. Essa eliminerà qualunque espressione d’interesse sessuale o di sentimento sessuale verso il terapeuta. La “cattiva ragazza”, invece, sarà seduttrice. In quest’analisi presento le grandi linee dei comportamenti possibili. In effetti la sessualità non può essere totalmente soppressa. Alcune delle sue manife- stazioni devono sempre essere presenti. Ci sono dei pazienti che proiettano un misto tra la “brava” e la “cattiva” ragazza. Ma, in ogni modo, la paziente mette in scena e rivela la storia delle sue relazioni precoci con il sesso op- posto. Ciò deve essere considerato come tale dal terapeuta e fermato in mo- do appropriato.

Il modo in cui un terapeuta di sesso maschile se la sbriga con una pa- ziente di sesso femminile è determinato dalla sua struttura caratteriale e si manifesta nel suo controtransfert. Può essere freddo e distaccato e dedurre che la sessualità non ha diritto di cittadinanza nella situazione terapeutica. Può, al contrario, sentirsi eccitato dalla dimensione sessuale della relazione con la paziente e, consciamente o inconsciamente, incoraggiare i suoi pas- saggi all’atto. Ogni investimento emotivo del terapeuta con una paziente di sesso femminile limita la terapia. Ogni implicazione sessuale la distrugge. Invece di capire e di risolvere il conflitto edipico, il paziente vi è precipitato nuovamente. Un approccio freddo, distante, altezzoso da parte del terapeuta blocca ogni movimento verso l’accettazione, l’abbandono e la gioia. Un terapeuta deve accettare la dimensione sessuale del paziente affinché la te- rapia funzioni, così come un padre deve accettare la sessualità della sua bambina, affinché essa possa crescere e diventare una donna matura. Affin- ché un terapeuta possa avere l’atteg-giamento corretto in questa situazione, deve essere un uomo maturo.

Per la situazione edipica la maggior parte delle bambine si trovano in una situazione di rivalità con le loro madri. Allorché la bambina sente che suo padre prova più sentimenti per lei che per sua moglie, si sente superiore alla madre. Nella sua innocenza è più sensibile a suo padre, al suo conflitto con sua moglie, alla sua tristezza ed alla sua frustrazione. Crede che l’amore che prova per suo padre sia più profondo di quello di sua madre. Ma è anche terrorizzata dalla madre, dalla sua gelosia e dalla sua collera e si sente insicura ed inferiore. Questo miscuglio di sentimenti, costituito da sentimenti di superiorità e d’inferiorità così come da paura e rabbia nei con- fronti della madre, è proiettato su una terapeuta di sesso femminile. Nella situazione transferale la paziente metterà spesso in atto delle difese poiché accettare l’autorità della terapeuta equivarrebbe a riconoscerne la superiori- tà. Contemporaneamente, non osa esprimere i suoi sentimenti per paura d’essere rifiutata. Ma nella misura in cui l’espressione sincera è essenziale per la scoperta di sé, trattenere l’espressione di tali sentimenti costituisce una resistenza alla terapia. Ciò che ho detto a proposito dei pazienti di sesso femminile in rapporto ai terapeuti donne vale allo stesso modo per i pazien- ti di sesso maschile nei confronti dei terapeuti uomini. A causa del problema edipico questi pazienti sono messi in una situazione di competizione con il padre, per la madre. Ogni ragazzino prova dei sentimenti sessuali per la propria madre. Fu colei che gli diede la vita ed è, quindi, la sorgente del- la sua gioia più precoce. Questo è particolarmente vero per i bambini che sono stati allattati al seno. Fu vero per me. Fui nutrito al seno sino a circa nove mesi. Quando persi il seno fu come perdere il mio mondo e le lacrime non servirono a nulla. Per rendere le cose ancora peggiori, mia madre si arrabbiava molto con me quando piangevo. Non aveva latte e si sentiva maltrattata dai miei sforzi persistenti di recuperare il mio mondo. Non ho mai recuperato quel mondo e la tristezza di quella perdita si vede ancora oggi nei miei occhi.

Mia madre era una donna triste, insoddisfatta, ambiziosa. Mio padre a- veva un temperamento facile, amava il piacere e non conosceva il successo negli affari. Lui non le ha mai dato denaro a sufficienza per gestire la casa e lei non gli ha dato sesso a sufficienza per soddisfare il suo desiderio. Liti- gavano sempre ed io ero in mezzo. Quando diventai più grande, ricordo che ognuno faceva appello a me perché capissi le sue ragioni. Realizzo ora che mi affidavano la missione di salvarli e sento che ciò mi fece sentire impor- tante e speciale.

Mia madre si rivolse a me per ottenere l’amore di cui aveva bisogno e cercò di legarmi a sé. Dovevo avere successo per soddisfare la sua ambi- zione. I suoi sentimenti per me mi spinsero ad entrare in competizione con mio padre e lo ho superato nella mia vita raggiungendo un certo successo. Non volevo accettare questa sfida, ma non potevo resistere a mia madre. Avevo bisogno del suo amore. La perdita del seno era stata un’esperienza che mi aveva spezzato il cuore e non potevo correre il rischio di perdere nuovamente il suo amore. Il pensiero che potesse nuovamente rivoltarsi contro di me mi proiettava in uno stato di panico. Pur essendo tanto sedut- tiva nei miei confronti mi rifiutava come uomo. Crebbi con la sensazione d’essere superiore agli altri ragazzi. Ero brillante e riuscivo bene a scuola. Ma negli altri campi ero un ragazzo spaventato ed insicuro. Per fortuna mio padre non si rivoltò mai contro di me e sentii sempre dei sentimenti caloro- si da parte sua. Se mia madre mi diede un sentimento forte d’ambizione e la voglia d’essere superiore agli altri, mio padre mi donò il piacere del mio corpo e l’interesse per le attività fisiche. Ho evocato in un mio precedente libro che ero una personalità divisa, una parte di me si identificava con mia madre ed i suoi valori, l’altra con mio padre. Ciò che mi salvò dall’essere schizofrenico fu il fatto che potevo stare in entrambi i luoghi, così che la divisione fu più una frattura che una separazione completa. Ma era una di- visione che dovevo curare se volevo diventare me stesso. Fui fortunato ad incontrare Wilhelm Reich che aveva capito la relazione corpo-spirito e fu capace d’aiutarmi ad integrare questi due aspetti in conflitto nella mia per- sonalità.

Prima di incontrare Reich, avevo pensato che la psicoanalisi potesse of- frirmi l’aiuto di cui avevo bisogno. Avevo letto qualche scritto di Freud ma mi avevo lasciato freddo perché sentivo che era troppo intellettuale. Ho imparato da molti anni che la psicoanalisi non poteva raggiungermi. Non era possibile che mi avvicinassi ad un approccio intellettuale, poiché ciò avrebbe significato mettermi dalla parte di mia madre. Ed ero troppo arro- gante per pensare che altri fossero più intelligenti di me. Sviluppai il mio spirito critico per contrastare le argomentazioni di mia madre, cosa che mi fu molto utile. Ciò funzionò anche nei miei primi contatti con Reich, quan- do teneva dei corsi alla Nuova Scuola di Ricerche Sociali. L’apprezzavo molto ed approvavo il suo punto di vista sul ruolo del corpo e dei suoi pro- cessi come fondamento della vita, ma non potevo accettare l’enfasi che da- va al ruolo della sessualità. Il mio scetticismo svanì improvvisamente du- rante i suoi corsi quando lessi i tre saggi di Freud sulla sessualità infantile. Quando questo scetticismo svanì seppi che dovevo seguire Reich ed intra- presi la terapia con lui nel 1942.

Mi piacerebbe ora discutere delle vicende del transfert e del controtran- sfert così come sono apparsi in questa terapia. Reich era molto consapevole di queste vicende. Durante il primo periodo di terapia mi chiedeva, ad ogni seduta, di dirgli i miei pensieri negativi nei suoi confronti. Reich aveva suf- ficiente esperienza per sapere che tutti i pazienti hanno una certa diffidenza nei confronti dell’analista. Ma, settimana dopo settimana, quando mi faceva questa domanda, gli rispondevo che non avevo pensieri negativi nei suoi confronti o nei confronti della terapia. Sapevo che era considerato da molti come un ciarlatano o come un guru. Pensavo che queste opinioni erano er- rori grossolani basati sulla paura. Lo consideravo un genio dotato di pro- fondità di comprensione che chiariva molta della confusione della nostra cultura. Poi, man mano che la terapia procedeva e che sembrava che vi in- vestissi sempre di più, smise di farmi domande a proposito dei miei pensie- ri negativi. Ero diventato, in effetti, suo discepolo.

Dopo un grande inizio e, benché l’accettassi come professore, la terapia si arenò. Malgrado i più grandi sforzi non facevo alcun progresso e Reich suggerì che ci fermassimo. Fui all’improvviso messo di fronte all’idea che stavo fallendo e che il mio sogno di riuscita sessuale fosse minacciato. Scoppiai in lacrime. Mi sembrò che cercassi di piacergli e che volevo che mi adottasse come suo figlio. Sarebbe stato il padre che non avevo mai po- tuto ammirare e si sarebbe preso cura di me. L’emergere di quest’aspet- tativa, cioè che un uomo superiore si sarebbe preso cura di me, aprì la porta ad altri progressi. Non avevo mai ammirato mio padre ed avevo dovuto prendermi cura di lui. La terapia progredì e mi condusse alla capacità d’abbandonarmi al mio corpo durante la seduta. Avevo fatto l’esperienza della gioia di questo abbandono. Ma la gioia non durò ed ho dovuto ancora lavorare lunghi anni su di me per trovare la mia anima.

Uno dei motivi per cui ciò non durò è che il mio lasciarmi andare avve- niva in gran parte di fronte a Reich, con lui ammettevo di non essere una persona superiore e d’aver bisogno del suo aiuto. Sfortunatamente la terapia terminò su questa nota, poiché essendo Reich una persona speciale a cui potevo chiedere aiuto, potevo sempre considerarmi superiore agli altri. E sicuramente, diventare terapeuta e direttore di una scuola, mi permise di giustificare quest’illusione. Come mai ciò era sfuggito a Reich che aveva tanta dimestichezza con il transfert negativo?

La risposta è chiara. Reich si vedeva anche lui come individuo superiore sapendo di più ed avendo maggiore sensibilità degli altri a proposito dei problemi della condizione umana (anche se accettiamo che fosse un genio, la convinzione d’essere superiore resta un tratto nevrotico). Ciò lo rese cie- co ai suoi seguaci che lo vedevano come qualcuno di superiore e si crede- vano essi stessi superiori, attraverso la loro identificazione con lui. L’individuo superiore non è aperto alla critica poiché la consapevolezza di se stesso è legata alle sue idee e non è profondamente radicata nel corpo. Ad un certo punto la critica minaccia la sua sicurezza che dipende, ad un livello profondo, da una rigidità corporea. Con il sostegno di Reich avevo potuto abbandonare il controllo dell’Io ed abitare il mio corpo ma, come scoprii più tardi, non potevo mantenere questa capacità da solo. Troppi problemi nella mia personalità erano irrisolti. Troppe tensioni nel mio cor- po non erano allentate.

Cinquant’anni mi separano dall’inizio della mia terapia con Reich. Il mio sentimento di superiorità mi ha creato molti problemi e mi ha costretto ad affrontare la mia insicurezza. Ho proseguito il mio percorso terapeutico di scoperta di me stesso lavorando regolarmente con il mio corpo attraverso esercizi destinati ad approfondire la mia respirazione, ad esprimere i miei sentimenti ed ad aprirmi ad una circolazione completa del flusso d’energia di eccitazione del mio corpo. E la vita divenne la mia terapeuta attraverso i ripetuti fallimenti nel lavoro ed in amore. Ad ogni insuccesso allentavo un po’ di più la mia lotta per essere il migliore, col beneficio di essere sempli- cemente. A questo livello la superiorità non ha senso, non vi è conflitto, e si può fare l’esperienza di una certa pace e di una certa gioia.

In quanto terapeuta, ho provato tanto ad aiutare i miei pazienti a cambia- re i loro tratti nevrotici, ad essere più liberi e più espressivi. Penso di aver aiutato molta gente. Ma i miei sforzi erano un handicap per la terapia. Rap- presentavano, in gran parte, il mio bisogno di provare che ero in grado di farlo. Alcuni dei miei pazienti mi consideravano come qualcuno che li con- trollava e diceva loro ciò che dovevano fare, e, se esprimevano il loro risen- timento, ciò li aiutava a sentirsi più liberi nella relazione con me. Accettare le loro critiche mi ha aiutato ad abbandonare il mio bisogno nevrotico di performance e sono diventato più tranquillo e più libero come terapeuta. Mi considero come una guida che aiuta il paziente nel suo viaggio alla scoperta di se stesso e non come un salvatore di anime disperate. I pazienti sono in- dividui persi che non vedono chiaramente poiché sono stati accecati dalla contro-verità di genitori che hanno detto al bambino che la sofferenza che gli hanno inflitto è stata nel nome dell’amore. Affinché il terapeuta sia una guida degna di fiducia, deve essere il portavoce della verità. Per enunciare la verità, deve vederla, quella dell’individuo, e nel caso del paziente, così com’è espressa nel suo corpo. Bisogna vedere la sofferenza che si manife- sta nella contrazione del corpo, la tristezza che si esprime nella mancanza di luce negli occhi, la paura che sottende l’inibizione della respirazione e la collera repressa incatenata nelle tensioni delle spalle, delle braccia e della schiena. Vedere è capire. Vedendo questi segni corporei possiamo capire che i pazienti sono esseri turbati e tormentati, che la loro vita è una lotta tra la speranza e la disperazione, tra la determinazione per riuscire e la paura del fallimento, tra una collera assassina e la paura che la perdita del control- lo possa condurre alla pazzia. La vita, per la maggior parte delle persone, è una lotta per sopravvivere con poco reale piacere e solo qualche gioia mo- mentanea. È questo il luogo che deve essere attraversato nel viaggio alla scoperta di se stessi. La guida deve aver attraversato egli stesso questa zona nel suo viaggio alla scoperta di sé per essere una guida degna di fiducia.

Quando un paziente viene in terapia il transfert si stabilisce. È fatto dalle speranze e dalle delusioni del paziente, dalla sua fiducia e dalla sua diffi- denza, dalla sua collera e dalla sua paura. Il terapeuta deve conoscere e ca- pire questa dimensione della terapia, ma deve sapere anche che forze poten- ti e spesso demoniache si trovano dietro questo fenomeno e non sono ac- cessibili all’analisi razionale. Ciò di cui ha bisogno un paziente non è un analista dallo spirito pungente che può controllare ciò che egli fa male, ma di un amico dal cuore caloroso e dalla visione chiara. Essere amico signifi- ca dimostrare empatia verso il paziente, sentire la sua sofferenza, la sua paura, la sua aspettativa ed il suo conflitto. Questo sentire empatico è la base di una vera comprensione. Se il paziente sente che il terapeuta lo capi- sce, lo accetterà come guida, perché sente che è un amico. Può darsi che non sarà capace di seguire il terapeuta sino all’avvento della gioia, poiché la sofferenza e la paura possono essere troppo grandi ed il coraggio può mancargli, ma non si sentirà mai tradito o ingannato o abbandonato per il fallimento della terapia.

Gli aspetti transferali della terapia diventano ostacoli insormontabili quando non si è lavorato sugli aspetti contotransferali dei terapeuti. Ciò significa che il terapeuta non ha ancora trovato la sua esistenza o la sua a- nima. Ciò significa che il terapeuta ha perso la sua strada e si è arenato in una contrada desolata senza bellezza né gioia.

Non ci si può aspettare da un terapeuta che abbia compiuto il percorso. Nessuno ci riesce poiché il paradiso è come il mondo perduto di Shangri-la. Non possiamo ritrovare l’innocenza o la libertà dello stato animale. Ma dobbiamo impegnarci a seguire la stella che potrebbe portarci sin lì. Secon- do le parole di Joseph Campbell – per seguire la nostra felicità.

I Suoi Libri

Per approfondire

alcuni di testi di Alexander Lowen

Il tradimento del corpo – ed. Mediterranee

Bioenergetica – ed. Feltrinelli

Amore sesso e cuore – ed. Astrolabio

Arrendersi al corpo – ed. Astrolabio

Il linguaggio del corpo – ed. Economica Feltrinelli

La depressione e il corpo – ed. Astrolabio

Il piacere – ed. Atrolabio

Il Narcisismo – ed. Economica Feltrinelli

Paura di vivere – ed. Astrolabio

La spiritualità del corpo – ed. Astrolabio

Il piacere – ed. Astrolabio

La depressione e il corpo – ed. Astrolabio

Arrendersi al corpo – ed. Astrolabio